LOW COST E’ UN BUSINESS MODEL, NON E’ UN MODO PER COPRIRE INCAPACITA’ GESTIONALI O IGNORANZA IMPRENDITORIALE
C’è un che di mefistofelico nella considerazione che gli attori del settore fitness hanno riguardo le palestre low cost (chiamate anche budget club). Quel tanto di “vendita dell’anima al diavolo” che alimenta un’aura da fiaba gotica, una sorta di Cappuccetto Nero dove la nonna-alias-lupo ingoia l’innocenza di chi ha creduto di svolgere una sorta di supplenza al welfare statale mancante.
Chi pensa tutto questo, poi, compra librerie Billy all’IKEA, viaggia su aerei targati Ryanair o Easyjet, e affolla grandi magazzini dove trovare il personale è peggio che cercare un ago in un pagliaio. Nella tipica incoerenza italica, chi sbuffa o, peggio, inveisce contro la “filosofia low cost”, ne è poi inconsapevole cliente e fruitore.
Sgombriamo quindi il campo da equivoci: low cost è un approccio imprenditoriale e strategico, per cui il pricing è cost-based, e i costi sono talmente ridotti all’osso da rendere possibile un prezzo al pubblico in teoria molto più basso della media del settore, e a volte talmente basso da sembrare impossibile (e diciamo “in teoria”, perché il business model dei budget club, in realtà, implica target di valori medi mensili per cliente che non si discostano molto da quelli dei club “all-inclusive”).
Sembra l’uovo di Colombo, ma non lo è troppo in un settore come il nostro, dove un errato concetto di concorrenza ha portato spesso, negli ultimi tempi, a promozioni folli e tagli prezzi incontrollabili, che hanno ridotto e, spesso, distrutto i margini lordi a scapito, ahinoi, della qualità dei servizi offerti.
Quali sono quindi le caratteristiche di una palestra low cost, in Italia?
Superficie generalmente molto ampia (spesso oltre i 1.500/2.000 mq); vendita, a prezzo unico, di abbonamenti almeno annuali, che comprendano l’utilizzo di una grande sala attrezzi, e in qualche caso la frequenza di small group che si svolgono nella stessa sala; offerta di ulteriori servizi a pagamento, in modalità flat, quali bevande idro-saline erogabili da un apposito macchinario, sessioni di lampada solare, sedute di pedana vibrante, e (novità dell’ultimo biennio) alcuni corsi fitness a calendario; docce in quantità minima e pagate a parte (in genere 0,50 € a volta); trainer sempre presenti in sala con funzione di mero controllo, e a volte anche di vendita degli abbonamenti presso la reception (talvolta resiste la figura della consulente commerciale, rasentando l’uscita dal modello di business); orari di apertura molto ampi, maggiori comunque delle palestre all-inclusive, in qualche caso addirittura no stop.
Infine, per essere chiari:
Non è low cost chi abbassa drasticamente il prezzo, spaventato da concorrenza o mancanza di tour o fidelizzazione, mantenendo tutto il resto identico.
Non è low cost chi ogni mese fa promozioni teoricamente spaventose (i pali della luce della mia città sono spesso preda di cartelli, partoriti da un grafico in acido, che annunciano “trimestrali a 29 €” o “mensili a 9 €”), avendo una struttura dei costi rigidissima cui, a volte, è costretto a far fronte con la dilazione debitoria, se non con la totale morosità.
Non è low cost, insomma, chi non pensa low cost, ma crede invece di poter cavalcare un’onda anomala che investe l’Italia, senza avere i mezzi culturali, ideali e imprenditoriali per contrapporvisi (e le recenti inchieste, giudiziarie e giornalistiche, che hanno coinvolto alcuni club del centro Italia, lo stanno a dimostrare).
Davide Verazzani
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